sábado, 2 de agosto de 2025

El Libro de los Muertos de Patricia Cornwell, la decimocuarta aventura de la brillante y mordaz doctora Kay Scarpetta-

La brillante y mordaz doctora Kay Scarpetta se ha instalado en Charleston, donde ha establecido un moderno laboratorio forense en el que trabaja con su equipo: su sobrina Lucy Faranelli, Rose y Pete Marino. En esta ocasión, Scarpetta viaja a Italia para investigar la cruenta muerte de Drew Martin, una joven y famosa tenista cuyo cuerpo mutilado ha aparecido en el venerable centro histórico de Roma. El asesino es apodado el Hombre de Arena por el macabro residuo que deja, una de las escasas pistas halladas en la escena del crimen. Las contradictorias pruebas dejan estupefactos a Scarpetta, a Benton Wesley (psicólogo forense amante de la doctora) y a los carabinieri italianos.

Trama

Rumore di acqua che scorre. Una vasca di piastrelline grigie a filo del pavimento di cotto.

L'acqua esce lenta da un vecchio rubinetto di ottone mentre fuori cala la sera. Oltre i vetri antichi, leggermente ondulati, delle finestre ci sono la piazza, la fontana e il buio.

La ragazza è seduta in silenzio nella vasca piena d'acqua e l'acqua è gelida, con cubetti di ghiaccio che si sciolgono a poco a poco. Il suo sguardo è quasi spento, ormai. All'inizio i suoi occhi erano come mani protese verso di lui, che imploravano salvezza; adesso sono dello stesso azzurro violaceo del tramonto. Non c'è quasi più nulla, dietro. Fra poco si chiuderanno.

«Tieni» le dice porgendole un bicchiere di vetro di Murano pieno di vodka.

È affascinato dalle parti del suo corpo che non hanno mai visto il sole e sono chiare come pietra calcarea. Chiude quasi completamente il rubinetto. L'acqua adesso gocciola appena. Le vede il respiro affannoso e sente i denti che battono per il freddo. I seni galleggiano bianchi sotto il pelo dell'acqua, come delicati fiori candidi. I capezzoli, inturgiditi dal freddo, sono due compatti boccioli rosa. Gli ricordano le matite dei tempi della scuola, quando rosicchiava i gommini rosa e diceva a suo padre, e qualche volta a sua madre, che non aveva bisogno della gomma perché non faceva errori. Ma la verità era che gli piaceva rosicchiare quei gommini. Non riusciva a farne a meno.

«Ti ricorderai come mi chiamo» le dice.

«No» dice lei. «Posso dimenticarlo.» E batte i denti.

Lui sa perché lo dice: se lei dimenticasse il suo nome, il suo destino andrebbe rivisto, come un piano di battaglia sbagliato.

«Come mi chiamo?» le chiede. «Dimmi come mi chiamo.»

«Non me lo ricordo.» Piange, trema.

«Dimmelo» insiste, guardando la pelle d'oca sulle braccia abbronzate, i peli biondi ritti, il seno giovane e la chiazza scura tra le gambe, sott'acqua.

«Will.»

«E poi?»

«Rambo.»

«Ti sembra buffo?» le chiede sedendosi sul coperchio del gabinetto, nudo.

Lei scuote energicamente la testa.

Mente. L'ha preso in giro, quando le ha detto come si chiamava. Ha riso, ha detto che Rambo è un nome finto, un nome da film. È svedese, le ha risposto. Allora lei gli ha fatto notare che lui mica viene dalla Svezia. È il nome che viene dalla Svezia, e da dove se no? È un nome vero. «Già, come Rocky» ha riso lei. «Guarda su Internet» le ha detto. «È un nome vero.» Non gli è piaciuto dover dare spiegazioni sul proprio nome. Questo è successo due giorni fa, e Will non se l'è presa, ma non se l'è nemmeno dimenticato. L'ha perdonata perché, nonostante quello che pensa la gente, è una che soffre moltissimo.

«Il mio nome sarà un'eco» le dice. «Il fatto che te lo ricordi o meno non fa nessuna differenza. È solo un suono già sentito.»

«Non lo direi mai.» Panico.

Ha le labbra e le unghie viola, e trema in maniera incontrollabile. Ha lo sguardo fisso nel vuoto. Will le ordina di bere e lei non osa rifiutare: sa che cosa le succederà al minimo atto di insubordinazione, anche solo un piccolo grido. Will è seduto tranquillo sul gabinetto, a gambe larghe, in modo che lei veda che è eccitato e abbia paura. Ha smesso di implorarlo, di ripetergli che può fare di lei quello che vuole, se è quello il motivo per cui l'ha presa in ostaggio. Ha smesso di dirglielo perché sa che cosa le succede se lo insulta. E lasciargli capire che sta a lui farlo o non farlo, perché lei non lo farebbe mai di sua volontà, è un insulto.

«Ti rendi conto che te l'ho chiesto gentilmente» le dice.

«Non lo so.» E batte i denti.

«Sì che lo sai, invece. Ti ho chiesto di dirmi grazie. Non ti ho chiesto altro. Te l'ho chiesto gentilmente, ma tu no, tu hai preferito questo» le dice. «Mi hai costretto a fare questo.» Si alza e osserva la propria nudità nello specchio sopra il lavabo di marmo levigato. "La tua sofferenza mi costringe a fare questo" dice la sua nudità allo specchio. "Io non volevo. Mi hai fatto del male, te ne rendi conto? Mi hai fatto un gran male, costringendomi a fare questo" dice la sua nudità allo specchio.

Lei risponde che lo capisce, e i suoi occhi guardano di qua e di là come schegge di vetro e, quando Will apre la cassetta degli attrezzi, si fissano sui cutter, sui coltelli e sulle seghe sottili dentro la cassetta. Lui estrae un sacchetto pieno di sabbia e lo posa sul bordo del lavabo. Poi alcune boccette di colla color lavanda, e posa anche quelle.

«Farò tutto quello che vuoi. Ti darò tutto quello che vuoi.» Glielo ha già detto più volte. Le ha ordinato di non dirglielo più, e lei invece glielo ripete un'altra volta.

Will allora immerge le mani nell'acqua, sente il freddo che lo attanaglia e la solleva per le caviglie. La tiene così, per le gambe fredde e abbronzate, per i piedi freddi e bianchi, e percepisce il terrore nel fremito dei suoi muscoli. La tiene così un po' più a lungo della volta precedente, stringendole le caviglie gelide. Lei si dibatte, si dimena, si agita con violenza, sollevando spruzzi di acqua fredda. A un certo punto Will la lascia andare e lei boccheggia, tossisce, emette grida strozzate. Ma non si lamenta. Ha imparato a non lamentarsi: c'è voluto un po', ma ha imparato. Ha imparato che tutto questo è per il suo bene e accetta con gratitudine un sacrificio che gli cambierà la vita. La cambierà a lui, non a lei, e gliela cambierà in un modo tutt'altro che bello, perché non è mai stato bello, né mai lo potrà essere. Dovrebbe essergli grata di quel dono.

Will raccoglie da terra il sacchetto della spazzatura che ha riempito di cubetti di ghiaccio e versa nella vasca quelli che restano. Lei lo guarda con il viso rigato di lacrime. Dolore. Will rivede i margini scuri del suo grande, insopportabile dolore.

«Li appendevamo al soffitto, laggiù» le racconta. «Li prendevamo a calci nelle ginocchia. Calci su calci. Laggiù. Entravamo tutti nella cella e li prendevamo a calci nelle ginocchia. Fa un male tremendo. Naturalmente, rimanevano zoppi. Naturalmente, alcuni morivano. Non è niente, in confronto a certe cose che ho visto laggiù. Io non lavoravo in quella prigione, capisci. Ma non ce n'era bisogno, perché queste cose succedevano dappertutto. Quello che la gente non capisce è che non è stupido filmarle, fotografarle. Anzi, è inevitabile. Non puoi non farlo, perché altrimenti è come se non fosse successo. Per questo si fanno le foto, per mostrarle agli altri. Anche a una persona sola. Basta che le abbia viste una persona, e tutto il mondo sa.»

La ragazza lancia un'occhiata alla macchina fotografica posata sul piano di marmo, vicino alla parete intonacata.

«Del resto se lo meritavano, no?» dice lui. «Ci avevano costretto a diventare diversi da come eravamo veramente. Di chi era la colpa? Nostra no.»

Lei annuisce. Rabbrividisce e batte i denti.

«Non sempre partecipavo» continua lui. «Però guardavo. All'inizio è stato difficile, traumatico. Ero contrario, ma le cose che ci facevano... Siccome loro ci facevano queste cose, anche noi eravamo costretti a fare qualcosa. La colpa era loro, perché ci costringevano. So che mi capisci.»

Lei annuisce e piange e trema.

«Bombe lungo le strade, rapimenti. Molti più di quanti si venga a sapere qui» riprende. «Ci si abitua. Un po' come tu ti stai abituando all'acqua fredda, no?»

Ma lei non si è abituata al freddo, è intorpidita e ormai prossima all'ipotermia. Ha la testa che le pulsa e il cuore che le batte come se fosse sul punto di esplodere. Will le porge la vodka e lei beve.

«Adesso apro la finestra» annuncia. «Così senti la fontana del Bernini. Pensa: io è quasi tutta la vita che la sento. È una notte perfetta. Dovresti vedere che stellata.» Spalanca la finestra e guarda la notte, le stelle, la fontana dei Quattro Fiumi e la piazza, che a quell'ora è deserta. «Non gridare» le dice.

Lei scuote la testa e ansima, scossa da un tremito.

«Stai pensando alle tue amiche, lo so. E loro di sicuro stanno pensando a te. Peccato: non ci sono. Non le vedo da nessuna parte.» Osserva di nuovo la piazza vuota e si stringe nelle spalle. «Perché dovrebbero essere qui a quest'ora? Se ne sono andate. Da un pezzo.»

Le cola il naso, le lacrimano gli occhi e trema. Nel suo sguardo non c'è più l'energia di quando lui l'ha conosciuta. Lo irrita che si sia rovinata così. Prima, molto tempo prima, le parlava in italiano, per essere lo straniero che aveva bisogno di essere. Adesso le parla in inglese, perché non fa più differenza. Lei lancia un'occhiata al suo membro eccitato, un'occhiata che rimbalza come una falena contro una lampada accesa. Will si sente osservato, proprio lì. Lì, dove c'è la cosa che le fa paura. Le fa paura, sì, ma non quanto tutto il resto. Non quanto l'acqua, gli attrezzi, la sabbia, la colla. Non ha ancora capito a cosa serva la grossa cintola nera arrotolata sul pavimento di mattonelle consunte: eppure è la cosa che dovrebbe farle più paura di tutto.

Will la raccoglie da terra e le dice che picchiare chi non è in grado di difendersi è un istinto primitivo. «Perché?» Lei non risponde. «Perché?» La ragazza lo fissa terrorizzata e la luce nei suoi occhi è spenta, ma folle, come uno specchio che gli si rompe davanti. Le ordina di alzarsi in piedi e lei ubbidisce, tremando, con le ginocchia molli. Quando è in piedi nell'acqua gelida, Will chiude il rubinetto. La ragazza ha un corpo che gli ricorda un arco teso, perché è flessuoso e forte. L'acqua le scivola sulla pelle.

«Voltati dall'altra parte» le dice. «Non preoccuparti. Non ti picchierò con la cinghia. Non mi piace.»

Quando lei si gira di spalle, verso il muro dall'intonaco screpolato e la persiana chiusa, l'acqua sciaborda leggermente nella vasca.

«Adesso mettiti in ginocchio nell'acqua e guarda il muro. Il muro, non me.»

Lei si inginocchia. Will prende la cintura e infila il capo libero nella fibbia.

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